mercoledì 22 febbraio 2012

I'm affected by "affected"

Qualsiasi lavoro ha i suoi aspetti positivi e negativi. Così come in qualsiasi lavoro c'è qualcosa che ci riesce benissimo e qualcosa che proprio non ci riesce. Per quanto ci si sforzi, con il tempo ci si scontra sempre con lo stesso problema. Per quanto riguarda il mio lavoro di traduttrice, ci sono alcune parole che ODIO tradurre. Si tratta spesso di parole d'uso molto frequente nell'inglese scritto, parole cariche di significato che nessuna parola italiana riesce a trasmettere completamente. In questo momento, traducendo una relazione sul Kosovo per il Parlamento europeo, mi sono imbattuta più volte sul termine "affected by". Già è difficile per me tradurre la forma attiva "to affect" ma la forma passiva per me è praticamente impossibile. Sono qui che rileggo la mia frase e ripeto che non mi piace, non mi piace, non mi piace... Uff...

lunedì 5 dicembre 2011

Un po' di umiltà non fa mai male

Faccio una premessa a quello che dirò perché è abbastanza forte: oggi non ho lavorato, sono uscita di mattina a fare delle commissioni e ho passato il pomeriggio a leggere il mio libro, guardare la puntata di ieri di Report perché parlava della gestione dei beni culturali in Italia e fra un po' andrò in palestra. Spero che gli altri colleghi a cui mi rivolgo non abbiano avuto una giornata come la mia, ma che per loro sia stata produttiva.

Facendomi gli affari degli altri su Facebook mi sono imbattuta oggi su qualche post in cui si descrivevano delle "trattative" tra un cliente e una collega interprete. La cliente evidentemente non sapeva assolutamente niente del lavoro dell'interprete, di quanto sia difficile il lavoro da svolgere e di tutti gli sforzi necessari 1) per la formazione del professionista, 2) per la preparazione all'evento di interpretazione che questi deve svogliere e 3) per sostenere l'evento interpretativo (in soldoni, ascoltare e parlare contemporaneamente in due lingue diverse) che a dire la verità è una gran bella fatica.

Ok i clienti tutto questo non lo sanno e spesso pensano che uno che conosce una lingua straniera sia in grado di fare il lavoro dell'interprete, ignorando completamente il problema del passaggio da una lingua all'altra. Ma vedere che un cliente si accerti della qualità del professionista, mi sembra solamente un buon segno, visto che tutti si buttano in questa professione fornendo poi dei servizi scadenti a gente che non vuole pagare il dovuto a un esperto vero e proprio. Se questo cliente poi usa una forma italiana colloquiale per cui la seconda R di interprete si allontana dalla prima trasformando la parola in interpetre per facilitare la pronuncia non mi sembra poi così tanto orribile o ridicolo.

Il nostro è un mondo poco conosciuto purtroppo, la nostra professione come ho detto è per lo più ignorata, ma ignorare anche che nella lingua parlata ci sia questa "deformazione" e per di più riderne, mi sembra assurdo. Soprattutto non mi sembra che sia il  modo giusto per riuscire a convincere gli altri dell'importanza dei nostri servizi, di quanto sia difficile e faticoso il nostro lavoro che solo in pochi sono in grado di fare.

Con questo, cara collega, ti voglio bene e ti stimo molto come professionista. Solo non sono d'accordo sulla tua "uscita" di oggi.

Inserisco qualche voce del dizionario. Così impariamo tutti qualcosa oggi...

Dal Treccani: Interprete
Dal De Agostini: Interprete

domenica 27 novembre 2011

V come Veramente Bella

Una nota che divaga un po' dai miei commenti linguistici e lavorativi...
Sono in viaggio a Bratislava, in Slovacchia. È la terza volta che vengo qui perché da quattro anni mio fratello si è trasferito per lavorare come maestro di kung fu. Bratislava è una città carina, non bellissima ma carina e vivibile. Ieri però, visto che in queste zone le distanze sono proprio brevi, siamo andati a Vienna (a un'ora di distanza in tutto!). Fin'ora quello di ieri è stato l'unico giorno con il sole e con temperature un po' più miti, diciamo più vicine all'inverno italiano. Ed era semplicemente magnifica.
La prima volta che ci ero stata mi aveva già fatto una bella impressione, ma ieri ancora di più. Ha tutto un suo stile, il centro è grande, ben conservato e abbastanza esteso. Basta allontanarsi un po' da piazza S. Stefano e dal Graben per trovare negozi molto belli e palazzi non da meno. È stato tanto bello passeggiare per queste strade che non ci siamo nemmeno interessati a dov'erano i mercatini di Natale.
La cosa più bella secondo me è che sembra di vivere nell'ottocento e le carrozze che trasportano i turisti non fanno che favorire quest'impressione.
Non ci sono molte altre città che mi hanno dato quest'impressione.
Forse New York e Parigi, ma per stili, motivi ed epoche diverse.

martedì 15 novembre 2011

Translation horror of the day...

"Oh Signore!" È stata questa la mia esclamazione quando ho visto un orrore della traduzione come questo:
"If necessary, install a blind that does not interfere with the airflow."
"Se necessario, installare un cieco che non interferisca con il flusso d'aria."
Si tratta del manuale d'istruzioni di un condizionatore d'aria. Vabbè che queste istruzioni le leggono solo gli esperti, ma anche loro come fanno a sapere che "blind" in inglese oltre a "non-vedente" o più semplicemente "cieco", significa "veneziana" o "tenda avvolgibile". Sono basita, basita...

venerdì 11 novembre 2011

P. p e p. r.

Potranno sembrare sigle strane quelle lettere puntate che formano il titolo di questo intervento, quindi le spiegherò subito. Prima però voglio commentare sull'abitudine di abbreviare tutto e di codificare le abbreviazioni. Abitudine che ci hanno inculcato durante la laurea specialistica, specialmente durante le lezioni di interpretazione consecutiva. Non si trattava solo di abbreviazioni, ma anche e soprattutto di simboli che codificavano concetti ricorrenti in un discorso. Parole tipo: molto, poco, soddisfatto, insoddisfatto etc. avevano un simbolo. Parole che terminavano con suffissi come -tà, -mento, -ismo etc. avevano un codice per ogni suffisso. Anche la differenza tra nome, aggettivo e avverbio era codificata quindi una volta scritto il concetto bastava segnare di quale parte del discorso si trattava. O mamma mia che nostalgia della consecutiva... Era un crostino (come si dice a Siena per una cosa che non è per niente facile da fare o una persona con cui è difficile rapportarsi), ma mi piaceva, mi dava soddisfazione riuscire a tirare fuori un discorso da degli appunti che nessun altro, tranne me, sarebbe riuscito a decifrare.

Le scelte della vita però ti portano molto lontano e guardandoti indietro vedi quanta strada hai fatto e che ciò che ti hanno insegnato 6 o 7 anni fa è ancora dentro di te, come dentro di me è rimasta la fissa di abbreviare e codificare negli appunti. Ad esempio durante il corso per diventare guida turistica a Siena ero quella con gli appunti più dettagliati (che però non potevo prestare a nessuno) per cui Francesco di Giorgio Martini era FDG, lo Spedale Santa Maria della Scala era SMS e così via.

Dopo questa premessa per spiegare perché ho scritto questo titolo, passo a spiegare cosa significa. P. p. sta per Passato Prossimo, mentre P. R. sta per Passato Remoto.

Una disquisizione lunga e difficile quella dell'uso di questi due tempi verbali in italiano ma da toscana e senese quale sono non posso negare il mio affetto quasi famigliare nei confronti del passato remoto. Come forse succederà a tutti, parlare come si parla a casa con i genitori e fuori con gli amici è il modo migliore per esprimere se stessi e i propri sentimenti. Quindi, nel mio caso, anche usare il passato remoto è qualcosa di essenziale per far capire agli altri le cose che vivo.

Non in tutta Italia è così, anzi, sento persone dire "Nel 1986 ho iniziato ad andare a scuola". E nella mia mente la domanda che ne segue è "Ma non l'hai ancora finita?". Perché invece a Siena, il passato remoto si usa per descrivere cose finite ma che possono non essere così tanto lontane, ad es. "La settimana scorsa andai al mercato a comprare la frutta".

Il problema dell'abbandono del passato prossimo nella lingua parlata è un fatto ormai reale che, benché mi dia un po' fastidio, devo accettarlo così com'è, in quanto parte della cultura linguistica della maggior parte degli italiani.

Quello invece che non riesco ad accettare, è l'uso del solo passato prossimo nello scritto. Dato che il linguaggio scritto è un'abilità che si apprende a scuola e dovrebbe essere quindi slegata dalle abitudini linguistiche locali. In altre parole l'italiano più diffuso, l'italiano che tutti parlano, è quello scritto. Purtroppo però non è così. In questo momento, sto leggendo un romanzo di Fabio Volo. Un romanzo molto bello e che ha avuto molto successo, ma che per me ha una gravissima mancanza: il passato remoto appunto.

Il passato remoto serve a dare profondità a quello che si racconta. Se raccontando una storia usi solo il passato prossimo tutto si appiattisce e non c'è più differenza tra gli eventi d'infanzia, adolescenza e gli eventi più recenti. Il passato remoto va più a fondo, è più lontano dal presente rispetto al passato prossimo e se ne distacca proprio perché gli eventi sono terminati.

Questa assenza del passato remoto nel linguaggio scritto mi destabilizza e disorienta. Non mi sembra, infatti, possibile che un uomo adulto dica "Il primo giorno della prima prima elementare ho avuto paura di non essere all'altezza" (una frase inventata sul momento). Nel linguaggio parlato lo posso capire, ma in quello scritto proprio no.

Forse tra traduzioni, lezioni di italiano a stranieri e d'inglese a italiani mi sono fissata troppo sull'uso dei tempi verbali del passato. Però forse una maggiore sensibilità non è sempre poi così male...

giovedì 27 ottobre 2011

Un mestiere un perché di Poza Palumbo

Care colleghe e colleghi traduttori,

scrivo questo articolo e/o sfogo perchè una agenzia mi ci ha obbligato, è una delle ennesime clausole di cui tenere conto se voglio che il mio CV sia letto, eh si...solo letto e non è detto che poi mi prendano in considerazione per una eventuale collaborazione o finirò come mille altri prima di me, che non hanno avuto voglia di scrivere un articolo sotto minaccia velata (mica poi tanto) a prendere polvere nel loro database.

Diciamo che, vuoi per necessità lavorative, vuoi per sfizio personale, ho deciso di scrivere veramente un articolo e togliermi qualche sassolino dalla scarpa...la mitica clausola dice che per essere pubblicati e quindi presi in considerazione bisogna scrivere per il loro blog un articolo che tratti di lingue o di traduzione.

Fatevi da parte detrattori, il mio parla di entrambi !

Il mondo del lavoro nell’Anno Domini 2011 è ancora difficile, chiuso, esclusivo e razzista...e fin qui tutto bene (cioè male) non ci sono grandi novità rispetto al passato. La grande novità da qualche anno a questa parte è la nozione di PRECARIETA’, non aspettatevi che spenda anche solo una parola su questo argomento, sono stati in tantissimi ad esprimersi e rischiamo ogni giorno di più di affogare nel mare di inchiostro utilizzato.

Precarietà è una parola altamente ricorrente nel mondo della traduzione dove è sinonimo di abbandono e disillusione. Se decidi di essere traduttore devi fare i conti (proprio quelli matematici) con l’apertura di una partita Iva, un commercialista, un’associazione di settore ecc... Se sei uno stipendiato, a parte che hai una fortuna e un deretano invidiabile, lavori ed aspetti che arrivi (in maniera più o meno impaziente) il giorno di paga. Se sei un traduttore il giorno di paga non esiste! Esiste solo il giorno di consegna, perentorio ed ineluttabile che gravita su di te come la mitica spada di Damocle, solo che questa si stacca per davvero...

Il traduttore per definizione, è una persona specializzata e sottolineo specializzata, nel mondo delle lingue (ve lo avevo detto che parlava anche di questo) europee, orientali, morte, vive, insomma come vi pare che decide di diventare libero professionista (assumendosi tutte le responsabilità annesse) e che vive nella costante angoscia di vedere il frutto del suo lavoro accreditato sul suo miserevole conto SOLO dopo 30, 60, 90 giorni dalla consegna del lavoro! Fantascienza dite? No, cari è realtà garantita e certificata!

A proposito di certificati, per poter essere considerato traduttore devi avere un pezzo di carta (anche igienica per quel che vale) che attesti le tue competenze, e qui le agenzie si sbizarriscono!

È accettata una laurea in traduzione, e ci sta (dì hai studiato 5 anni per averla), o in interpretazione, e ci sta, in lingue, e ci sta un po’ meno (visto che il tuo sogno era fare l’insegnante),o in un settore tecnico di moda al momento, e non ci sta per niente (se consideri che un ingegnere possa tradurre in una lingua straniera dovresti prima capire cosa vuole dire in italiano!),o almeno possedere dei certificati che attestino che hai lavorato come traduttore durante gli ultimi 5 anni... ma come?! In chiaro vuol dire: fai la casalinga, ma ogni tanto hai tradotto le canzoni in inglese che danno alla radio per capire cosa stai cantando?! Beh, sei hai i testi dattiloscritti allora puoi considerarti traduttore.

Concorrenza rude...rudissima...se sei riuscito a sopravvivere alla fase “istruzione e formazione” puoi accedere alla fase 2, le tariffe!

Questa è la bestia nera di ogni traduttore, per quanto tu ti sforzi di abbassarle al pari dello sero assoluto non è MAI abbastanza... Devi fare i conti (anche questi matematici) con la spirale infernale del subappalto...ovvero, un committente X incarica un’agenzia Y di una traduzione e decide un prezzo W. L’agenzia Y incarica un traduttore Z che gli fa un prezzo J, l’agenzia Y dice al traduttore Z se vuoi il lavoro devi farci una tariffa W-J= ± 0. Tradotto (adoro questa parola) vuol dire che la tua tariffa sarà abbassata qualunque cifra tu spari, anche a caso.

Non ci avete capito molto eh? Non vi preoccupate, nemmeno noi traduttori, sono anni che cadiamo sempre nella stessa trappola e ci riteniamo persino fortunati rispetto a quelli che non ce la fanno e si bloccano al passaggio “istruzione e formazione”.

Se riesci a passare tra le maglie del sistema e invii la tua candidatura spontanea (equivalente ad un suicidio sociale) nel migliore dei casi ricevi una risposta del tipo: abbiamo ricevuto la tua candidatura e ti ringraziamo dell’interesse nei nostri confronti (non hanno capito una mazza) ti contatteremo non appena il tuo profilo coinciderà con uno dei nostri lavori. E qui ti devi ritenere fortunato perchè sei caduto dentro il loro Database di miserevoli e prima o poi arriverà il tuo turno, forse tra un milione di anni (ma non disperare) solo che poi nasce qualche dubbio se trovate sempre nella pagina delle agenzie ....siamo costantemente alla ricerca di nuovi traduttori (scusa e dei vecchi che ne fate?!)

Molte altre agenzie mettono ancora delle piccole clausole a questo “filtro”. Sono in troppi a mandarci il loro CV e per fare una selezione accurata i candidati si devono sottoporre ad un TEST di traduzione GRATUITO. Diciamo che lo abbiamo sempre saputo, siamo stati preparati a questo durante le ore di studio all’università e non è del tutto una sorpresa, salvo per l’ingegnere e la casalinga (sorpresa!), il test non è solo grautito ma anche in tempi stretti e cronometrati da LORO (e poi dicono che i traduttori non sono sportivi...tsé), devi essere disponibile a lavorare il weekend, nei giorni festivi e di notte, devi essere raggiungibile tramite Skype, MSN, FB, SMS, telefono, fax, gps... (altro che Grande Fratello).

E non finisce qui...se vuoi che la tua candidatura sia presa in considerazione sappi che ci sono agenzie che ti costringono (ma sempre con il sorriso) a...redigere un articolo per il loro blog...ebbene si...redigi un articolo...suona un po’ come il tema delle elementari...

Qualora riuscissi a redigere un articolo intelligente (non è il caso di questo) e che apporti un arricchimento al blog della suddetta Agenzia allora questo verrà vagliato da un team di esperti (che non hanno di meglio da fare) e se approvato, sarà pubblicato e solo DOPO e sottolineo DOPO il tuo CV sarà letto e ti sottoporranno ad un test gratuito (non puoi scampartela).

Tutto questo per dire che :

alla fine non conta se sei un traduttore o un ingegnere specializzato con 2 in italiano, non conta se fai i test di traduzione gratis o se redigi articoli per blog, l’importante è che PRATICHI TARIFFE SOTTO LO ZERO E TI PIEGHI A TUTTE LE REGOLE!

Abbasso l’omertà nel mondo della traduzione, abbiamo bisogno di DIRITTI , siamo calpestati troppo spesso e alla mercè di gente senza scrupoli !

TRADUTTORI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI !!! (e se possibile RIBELLATEVI)

domenica 16 ottobre 2011

Piccoli cedimenti nelle convinzioni

Copio da un mio status su FaceBook:

"In seguito agli ultimi misfatti, sto perdendo quella convinzione che mi ha portato a decidere di rimanere a vivere in Italia e a prendere tutte quelle decisioni che dal 2006 in poi ho preso e che mi hanno portato a essere dove sono".


È una sensazione strana e che non avevo mai avuto. Da quando ho cominciato a dover pensare a che cosa volevo fare della mia vita (e per fortuna è successo abbastanza presto, a 24/25 anni), ho sempre pensato, anzi sentito, di voler rimanere in Italia e di volermi "fermare" in questo posto dopo anni di viaggi ed esperienze all'estero. Ho visto tantissime persone continuare in questo peregrinare, lasciando il Paese per questioni politiche e/o economiche dicendo che l'Italia era un Paese di m...a. Motivavano la loro partenza con questioni politiche e, di conseguenza economiche, che si andavano comunque ad aggiungere a una loro voglia di partire.

A queste persone io rispondevo dicendo che nella vita non c'è solo la politica e che in Italia ci si vive bene a prescindere. Perché si comprano pomodori che sanno di pomodori, olio che sa di olio ecc... Perché, non si può negare, il clima influisce sulla felicità... Perché gli affetti che ti stanno intorno vanno comunque coltivati e abbandonandoli perdi anche un pezzetto di te stesso... Perché per un po' di anni ho rivestito i panni di chi accoglie chi lascia il proprio Paese invece di chi viene accolto... Perché ci vuole coraggio anche nel rimanere, nel far parte di quel numero di persone che si possono descrivere come "buoni cittadini", senza scappar via...

Ora sono qui, con una casa che anche se non è mia ufficialmente, lo è praticamente, con un lavoro che mi radica fortemente a questa città e non solo a questo Paese. Le scelte le ho fatte e le motivazioni sono quelle di cui ho appena parlato.

Ma quello che è successo ieri, dopo che finalmente c'era qualcuno che si organizzava per dire basta, per unirsi a quello che faceva il resto del mondo, mi ha veramente messo di malumore. Comincio a capire chi ha scelto di andare via. Non so se lo farei se ne avessi la possibilità, ma per lo meno lo capisco.

Soprattutto penso che non sia giusto che, oltre tutto, si debba anche essere di malumore. Eppure è così, sono arrabbiata, ma anche senza speranza. Speriamo che venga fuori presto qualcuno che dia speranza a me, ma credo anche a tante altre persone che come me non possono non rimanere incredule e arrabbiate per quello che è successo negli ultimi tempi, quello che è successo ieri e le risposte che tutti quelli che parlano a un microfono hanno dato.