domenica 27 novembre 2011

V come Veramente Bella

Una nota che divaga un po' dai miei commenti linguistici e lavorativi...
Sono in viaggio a Bratislava, in Slovacchia. È la terza volta che vengo qui perché da quattro anni mio fratello si è trasferito per lavorare come maestro di kung fu. Bratislava è una città carina, non bellissima ma carina e vivibile. Ieri però, visto che in queste zone le distanze sono proprio brevi, siamo andati a Vienna (a un'ora di distanza in tutto!). Fin'ora quello di ieri è stato l'unico giorno con il sole e con temperature un po' più miti, diciamo più vicine all'inverno italiano. Ed era semplicemente magnifica.
La prima volta che ci ero stata mi aveva già fatto una bella impressione, ma ieri ancora di più. Ha tutto un suo stile, il centro è grande, ben conservato e abbastanza esteso. Basta allontanarsi un po' da piazza S. Stefano e dal Graben per trovare negozi molto belli e palazzi non da meno. È stato tanto bello passeggiare per queste strade che non ci siamo nemmeno interessati a dov'erano i mercatini di Natale.
La cosa più bella secondo me è che sembra di vivere nell'ottocento e le carrozze che trasportano i turisti non fanno che favorire quest'impressione.
Non ci sono molte altre città che mi hanno dato quest'impressione.
Forse New York e Parigi, ma per stili, motivi ed epoche diverse.

martedì 15 novembre 2011

Translation horror of the day...

"Oh Signore!" È stata questa la mia esclamazione quando ho visto un orrore della traduzione come questo:
"If necessary, install a blind that does not interfere with the airflow."
"Se necessario, installare un cieco che non interferisca con il flusso d'aria."
Si tratta del manuale d'istruzioni di un condizionatore d'aria. Vabbè che queste istruzioni le leggono solo gli esperti, ma anche loro come fanno a sapere che "blind" in inglese oltre a "non-vedente" o più semplicemente "cieco", significa "veneziana" o "tenda avvolgibile". Sono basita, basita...

venerdì 11 novembre 2011

P. p e p. r.

Potranno sembrare sigle strane quelle lettere puntate che formano il titolo di questo intervento, quindi le spiegherò subito. Prima però voglio commentare sull'abitudine di abbreviare tutto e di codificare le abbreviazioni. Abitudine che ci hanno inculcato durante la laurea specialistica, specialmente durante le lezioni di interpretazione consecutiva. Non si trattava solo di abbreviazioni, ma anche e soprattutto di simboli che codificavano concetti ricorrenti in un discorso. Parole tipo: molto, poco, soddisfatto, insoddisfatto etc. avevano un simbolo. Parole che terminavano con suffissi come -tà, -mento, -ismo etc. avevano un codice per ogni suffisso. Anche la differenza tra nome, aggettivo e avverbio era codificata quindi una volta scritto il concetto bastava segnare di quale parte del discorso si trattava. O mamma mia che nostalgia della consecutiva... Era un crostino (come si dice a Siena per una cosa che non è per niente facile da fare o una persona con cui è difficile rapportarsi), ma mi piaceva, mi dava soddisfazione riuscire a tirare fuori un discorso da degli appunti che nessun altro, tranne me, sarebbe riuscito a decifrare.

Le scelte della vita però ti portano molto lontano e guardandoti indietro vedi quanta strada hai fatto e che ciò che ti hanno insegnato 6 o 7 anni fa è ancora dentro di te, come dentro di me è rimasta la fissa di abbreviare e codificare negli appunti. Ad esempio durante il corso per diventare guida turistica a Siena ero quella con gli appunti più dettagliati (che però non potevo prestare a nessuno) per cui Francesco di Giorgio Martini era FDG, lo Spedale Santa Maria della Scala era SMS e così via.

Dopo questa premessa per spiegare perché ho scritto questo titolo, passo a spiegare cosa significa. P. p. sta per Passato Prossimo, mentre P. R. sta per Passato Remoto.

Una disquisizione lunga e difficile quella dell'uso di questi due tempi verbali in italiano ma da toscana e senese quale sono non posso negare il mio affetto quasi famigliare nei confronti del passato remoto. Come forse succederà a tutti, parlare come si parla a casa con i genitori e fuori con gli amici è il modo migliore per esprimere se stessi e i propri sentimenti. Quindi, nel mio caso, anche usare il passato remoto è qualcosa di essenziale per far capire agli altri le cose che vivo.

Non in tutta Italia è così, anzi, sento persone dire "Nel 1986 ho iniziato ad andare a scuola". E nella mia mente la domanda che ne segue è "Ma non l'hai ancora finita?". Perché invece a Siena, il passato remoto si usa per descrivere cose finite ma che possono non essere così tanto lontane, ad es. "La settimana scorsa andai al mercato a comprare la frutta".

Il problema dell'abbandono del passato prossimo nella lingua parlata è un fatto ormai reale che, benché mi dia un po' fastidio, devo accettarlo così com'è, in quanto parte della cultura linguistica della maggior parte degli italiani.

Quello invece che non riesco ad accettare, è l'uso del solo passato prossimo nello scritto. Dato che il linguaggio scritto è un'abilità che si apprende a scuola e dovrebbe essere quindi slegata dalle abitudini linguistiche locali. In altre parole l'italiano più diffuso, l'italiano che tutti parlano, è quello scritto. Purtroppo però non è così. In questo momento, sto leggendo un romanzo di Fabio Volo. Un romanzo molto bello e che ha avuto molto successo, ma che per me ha una gravissima mancanza: il passato remoto appunto.

Il passato remoto serve a dare profondità a quello che si racconta. Se raccontando una storia usi solo il passato prossimo tutto si appiattisce e non c'è più differenza tra gli eventi d'infanzia, adolescenza e gli eventi più recenti. Il passato remoto va più a fondo, è più lontano dal presente rispetto al passato prossimo e se ne distacca proprio perché gli eventi sono terminati.

Questa assenza del passato remoto nel linguaggio scritto mi destabilizza e disorienta. Non mi sembra, infatti, possibile che un uomo adulto dica "Il primo giorno della prima prima elementare ho avuto paura di non essere all'altezza" (una frase inventata sul momento). Nel linguaggio parlato lo posso capire, ma in quello scritto proprio no.

Forse tra traduzioni, lezioni di italiano a stranieri e d'inglese a italiani mi sono fissata troppo sull'uso dei tempi verbali del passato. Però forse una maggiore sensibilità non è sempre poi così male...